Nell’udienza al processo “Congiusta” hanno deposto Tommaso Costa e Giuseppe Curciarello
Una “tragedia” dietro la lettera
Il boss parla in videoconferenza:”non l’ho scritta io, l’ho solo avallata”
da sinistra: Roberta Congiusta, l’avvocato Sgambellone e Mario Congiusta
«La lettera di minacce a Scarfò non l’ho scritta io, l’ho solamente avallata, se volete potete anche fare la perizia calligrafica». Al processo per l’omicidio di Gianluca Congiusta è stato il giorno di Tommaso Costa, imputato di associazione mafiosa e omicidio, e Giuseppe Curciarello, che deve rispondere dell’accusa di associazione.
Costa ha alternato sfoghi a lunghe pause, qualche non risposta a lunghi monologhi. Ad emergere, secondo quanto dichiarato dall’imputato, il fatto che la missiva estorsiva ai danni di Antonio Scarfò, suocero di Gianluca Congiusta, sia stata organizzata per portare allo scoperto un altro estorsore che avrebbe fatto passare le minacce come imposte da Tommaso Costa. Il pubblico ministero, Antonio De Bernardo ha anche sviscerato la corrispondenza tra Costa e Curciarello, cercando di fare spiegare al teste il significato di alcuni passaggi anche in codice. Ma chi sono “Diabolik” e “l’uomo del monte” Costa non lo ha voluto dire. Dopo varie insistenze, anche del suo legale, l’avvocato Maria Tripodi, ha però detto che la frase “deve scomparire la volpe” si sarebbe riferita al fratello Pietro Costa, con il quale pare ci siano stati dei problemi familiari. «La volpe era mio fratello – ha riferito Costa – e non Congiusta, io non lo conoscevo, solo dopo che il padre ha chiesto giustizia sui giornali ho saputo chi fosse. Poi nelle lettere io non ho mai nominato Congiusta».
Il teste ha anche insistito su una trama ordita alle sue spalle per la quale oggi si trova in questa situazione. Poi Costa ha pensato anche a Curciarello, presente in aula:«Devo chiedere scusa a Curciarello – ha detto l’imputato – perché l’ho messo in questa situazione». Costa è poi passato all’attacco:«La signora raso ha ragione –ha detto il teste in videocollegamento da Rebibbia – suo marito Antonio Scarfò forse non sapeva nulla. Io mi trovo in questa situazione per colpa di qualcuno, non faccio nomi ma se si leggono le carte si capisce chi ha ordito contro di me. Io ho scritto la lettera a Scarfò per portare allo scoperto chi usava il mio nome, adesso ho capito cosa stava succedendo». Non sono mancati i riferimenti alla faida e ai fratelli morti nella guerra di mafia:«La mia famiglia ha subito nefandezze – ha detto Costa – per colpa di qualcuno che ci ha messi in mezzo e noi non c’entravamo nulla. Io oggi non mi fido di nessuno, specialmente degli amici». E Tommaso Costa ha anche dato la sua versione dei fatti sulla questione della ‘ndrangheta:«Io non sono un mafioso – ha dichiarato l’imputato – per essere mafiosi bisogna essere stato affiliato da qualcuno, e a me non è mai successo. Nessun pentito mi ha mai accusato». Si sente vittima di un raggiro Costa, talmente vittima da affermare:«Come vada a finire questo processo la giustizia ha perso – ha detto il teste – anche se mi assolveranno». A rendere la sua deposizione davanti alla Cosrte d’Assise di Locri, presieduta da Bruno Muscolo con a latere PierCarlo Frabotta, anche Giuseppe Curciarello, imputato in questo processo solo per il reato di associazione mafiosa e difeso dagli avvocati Leone Fonte e Dario Grosso. Curciarello ha confermato che secondo la sua interpretazione nelle lettere ricevute dal carcere emergeva tutta la preoccupazione di Tommaso Costa per le minacce a Scarfò fatte sotto il nome dello stesso Costa:«Era preoccupato – ha riferito Curciarello – almeno penso, mi scriveva per cercare di dirmi una volta fuori cosa fare. Contava su di me. Chi chiamavamo in codice “Diabolik” e “uomo del monte” lo so, ma non lo dico perché non è giusto e perché non si sa mai la gente come la prende, io ho famiglia».
di Paki Violi per il Quotidiano della Calabria