Paola Bottero: La metropolizzazione: da cosa mia a cosa nostra

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La metropolizzazione: da cosa mia a cosa nostra


“Cosa nostra, cosa vostra, cos’è vostro?”. Così cantava tre anni fa Fabrizio Moro, facendo intravedere una speranza: “è nostra la libertà di dire che gli occhi sono fatti per guardare, la bocca per parlare le orecchie ascoltano…”.

Tre anni dopo trionfa il personalismo. Tre anni dopo, dopo Corona, dopo Woodcock, dopo indagini aperte e chiuse, dopo navi dei veleni e pali eolici, dopo rifiuti, scorie, terremoti, dopo case acquistate a propria insaputa, dopo Protezioni (in)civili, dopo Santoro-che-lascia-Santoro -che-resta, dopo leggi ad personam, programmi ad personam, elezioni ad personam, editti ad personam, attacchi ad personam, divorzi ad personam, violenze ad personam, anche cosa nostra è ad personam. E diventa “cosa mia”.

Chissà se il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, è riuscito a cogliere la bellezza intimista del nome dato alla mega retata partita con la sua inchiesta.

Cosa mia. Bello, molto più dell’abusatissimo “cosa nostra”. Aderente ad una realtà fatta di decine di omicidi, sintesi di sangue della faida tra ‘ndrine per mettere le mani sugli appalti d’oro dell’autostrada. In numeri, “cosa mia” si riassume in venti milioni di euro, cinque imprese individuali, un immobile, undici appezzamenti di terreno e cinquantadue ‘ndranghetisti, di cui una decina di sesso femminile. Un’operazione di polizia che anticipa un paio di giorni lo scoppio dell’estate. L’afa attesa per giovedì, l’operazione calda, caldissima, che fa scattare le manette nella notte tra lunedì e martedì.


“Cosa mia” non può essere raccontato con la luce delle lucciole di una prima decade di giugno come un’altra. Non ci sono lucciole tra Gioia Tauro e Scilla, i due svincoli che delimitano il segmento “nodale” del V macrolotto, quello delle “aree interessate dai lavori di ammodernamento” che interessavano a “cosa mia”. Non ci sono da tempo. Se ne sono andate con i piloni di cemento che hanno reso possibili i viadotti. Immerse, con chissà quanti corpi, nelle colate che hanno fatto nascere il porto di transhipment più grande del Mediterraneo. Almeno nelle intenzioni di “cosa mia”.

L’area metropolitana reggina, quando si è iniziato a parlarne, avrebbe avuto i propri confini “nord” proprio là, tra i ricordi di agrumeti dove ora vengono scaricati o comunque movimentati container spesso, troppo spesso, carichi di altro. Non certo di mele, per quanto sembra che la ‘ndrangheta volesse prendere possesso dei frutteti trentini. Rimanendo in tema di frutta, e di cantanti, è molto più facile che si tratti di pere “alla Vasco”. O quantomeno di materia prima di produzione. “Cosa mia”.

“Cosa mia” è una storia che parte da lontano.

Una storia che inizia proprio lì, dove compaiono i doppi cartelli arrugginiti, scritte bianche su sfondo blu, il primo con una promessa, “CALABRIA”, il secondo con un arrivederci segnato da quella riga obliqua rossa, “BASILICATA”. Una storia antica, fatta di arcangeli e di riti. Una storia lunga. Lunga molto più dei quasi trecento chilometri che separano quei cartelli dalla fine della A3. Una storia pesante per tutti, compreso il neogovernatore regionale, costretto a divedersi tra la propria calabresità e la propria appartenenza al partito delle libertà di partito.

L’A3 pesa su Scopelliti non solo perché in una delle migliaia di dichiarazioni “elettorali” aveva dimenticato che la sua Calabria confina solo ed esclusivamente con la Basilicata, oltre che con il mare (l’aveva immaginata meno isolata, tra Puglia, Campania e Sicilia, e per nulla “lucana”). L’A3 pesa su molti turisti stranieri non solo perché ricordano ancora quel cognome, Green, che si tinge di nero se unito al nome Nicholas. L’A3 pesa sui calabresi, sui meridionali, su tutti gli italiani, non solo perché all’alba di un giugno come un altro qualcuno ha avuto il coraggio di dire quello che tutti sapevano. Perché qualcuno ha voluto scrivere nero su bianco le ragioni di tanti omicidi avvenuti nell’arco di un ventennio nel sud Italia, di tante gare truccate per i lavori di ammodernamento, di tante buche e di tanti cambi continui di carreggiata, ma non di corsia, che continuano a segnare il passo di quel nastro di asfalto.

L’A3 pesa. Peserà ancora di più quando, per percorrere il simbolo per antonomasia delle sconfitte dello Stato e della legalità, si dovrà pagare il pedaggio. Sarà presto, si dice. Si saprà quanto presto appena la Finanziaria non sarà più un documento segretissimo da discutere ai vertici di maggioranza, ma diventerà un documento palese ed intoccabile, da votare palesemente e incondizionatamente, con tanto di fiducia incorporata, nei due rami del Parlamento.

Alla fine della A3 c’è l’inizio di “cosa mia”. O forse alla fine di “cosa mia” c’è l’inizio della A3. Facile confondersi. Si sta parlando di area metropolitana, mica di una cittadina del Sud, recente sintesi di tante realtà eterogenee, montane e marine, unite demograficamente e urbanisticamente, ma mai realmente integrate. Mosorrofa, Gallico, Bocale, Cardeto, Pellaro. E poi avanti, fino ad arrivare alla città metropolitana di Reggio Calabria. Presto, forse, area metropolitana integrata dello Stretto.

Allora, con la vera integrazione, quella oltre lo Stretto, sarà impossibile confondersi.

Alla fine della A3, dei suoi morti, dei suoi appalti, delle sue tangenti e dei suoi pedaggi, ci sarà finalmente il ponte. L’integrazione reale. L’integrazione possibile. L’unica davvero in grado di superare i personalismi, di riportare ordine e pulizia oltre i confini di questa punta di stivale purulenta. Un’integrazione che ripercorrerà a ritroso tutte le esperienze maturate finora: appalti, omicidi, lotte di potere, clientelismo, massoneria e servizi deviati, tangenti, e finalmente riporterà lo status quo. Da “cosa mia” nuovamente a “cosa nostra”.
O forse, per essere più precisi, “cosa loro”. In una grande, unica realtà metropolitana che non è più così lontana.