"Non basta sapere che lo Stato c'è! Questo Stato deve dimostrare la sua presenza, la sua reale volontà". Parola di Rosanna Scopelliti, che è lucida, stringata, decisa quando con tanta rabbia ed evidente dolore nel corpo e nell'anima anche di striscio, argomenta attorno agli ambienti, violenti e fuorilegge, che hanno voluto e consumato l'assassinio del suo papà, un magistrato integerrimo e scomodo, mai prono o codino dinanzi ai portatori miserabili di prepotenze e prevaricazioni, ricatti e morte.
L'espressione che, per la verità, non è nuova né tanto originale, colta nel suo discorso, sulle sue labbra, ha assunto un significato profondo, sì da fornire un appiglio, agli intellettuali più sensibili ed esperti del settore, per ulteriori riflessioni sull'azienda del crimine globalizzato, che vanta, in Calabria, un fatturato annuo di oltre trentasei miliardi di euri, pari ai tre quinti in più del Pil della Regione, e che dispone e fa uso di "truppe" armate fino ai denti, capaci di seminare paure ed apprensioni, indistintamente, presso tutti.
Alla Scopelliti ha fatto eco, in primo luogo, il prof. Saverio Di Bella, docente di Storia moderna nell'Ateneo peloritano, già parlamentare e componente l'Antimafia, studioso attento dei fenomeni criminali, tra i primi a parlare di "mafiocrazia" e ad avere idee molto chiare sulla 'ndrangheta calabrese "la più forte e la più ricca organizzazione italiana, configuratasi già da un pezzo come essenziale mediatrice tra le trame criminali dei vari Continenti".
Per Di Bella, "tanto per cominciare, la 'ndrangheta, ha inciso sulla cultura e sul modo di pensare e di gestire i poteri dei calabresi, strumentalizzando popolari, diffusi, bisogni insoddisfatti, ataviche diffidenze verso lo Stato. Ma devo purtroppo aggiungere che su questi aspetti si esita a prendere atto della realtà; come se oscuri timori obnubilassero le capacità critiche di ciascuno e di tutti. Paralizzati dall'orrore di cui cogliamo l'esistenza, evitiamo la realtà". E, peraltro, "non si può reagire ad un male sociale senza prendere atto della sua esistenza e non si può lottare e vincere questo male senza individuare le cause e gli strumenti che ne hanno alimentato l'affermazione, la crescita e la supremazia. Bisogna partire dalle radici per costruire la vittoria se effettivamente si vuole vincere".
Due, per l'accademico calabrese che opera a Messina, le cause che hanno avuto un peso particolare: la capacità di condizionare la politica sia a livello regionale sia a livello nazionale, creando una corruzione pervasiva in quasi tutte le Istituzioni e la naturale vocazione alla violenza omicida". E quando gli si chiede se non c'è nulla da fare e se siamo al capolinea, precisa che"siamo piuttosto ad un bivio, in un momento in cui bisogna capire, agire e colpire. Più si conosce, infatti, il fenomeno e meglio si potrà combatterlo. Ed è proprio in questa direzione che sembra si stia non solo peccando di analisi precise, ma soprattutto di quella volontà politica vera che è il problema più condizionante, il problema dei problemi di fronte a cui non seguono fatti, ma i soliti proclami. Ritengo diseducativo, ad esempio, che si parli d'invincibilità della mafia, di scontro con lo Stato. Quando mai, dico quando mai, c'è stato il benchè minimo scontro tra lo Stato e la Mafia? Sarebbe ora di squarciare gli arcani. Passare alla lotta autentica. Non giova dire e non dire, opinare e non opinare: le mezze verità, le mezze verifiche, non danno mai buoni, completi frutti. Il dopo-Fortugno, nella Locride, insegni.
Alla Scopelliti ha fatto eco, in primo luogo, il prof. Saverio Di Bella, docente di Storia moderna nell'Ateneo peloritano, già parlamentare e componente l'Antimafia, studioso attento dei fenomeni criminali, tra i primi a parlare di "mafiocrazia" e ad avere idee molto chiare sulla 'ndrangheta calabrese "la più forte e la più ricca organizzazione italiana, configuratasi già da un pezzo come essenziale mediatrice tra le trame criminali dei vari Continenti".
Per Di Bella, "tanto per cominciare, la 'ndrangheta, ha inciso sulla cultura e sul modo di pensare e di gestire i poteri dei calabresi, strumentalizzando popolari, diffusi, bisogni insoddisfatti, ataviche diffidenze verso lo Stato. Ma devo purtroppo aggiungere che su questi aspetti si esita a prendere atto della realtà; come se oscuri timori obnubilassero le capacità critiche di ciascuno e di tutti. Paralizzati dall'orrore di cui cogliamo l'esistenza, evitiamo la realtà". E, peraltro, "non si può reagire ad un male sociale senza prendere atto della sua esistenza e non si può lottare e vincere questo male senza individuare le cause e gli strumenti che ne hanno alimentato l'affermazione, la crescita e la supremazia. Bisogna partire dalle radici per costruire la vittoria se effettivamente si vuole vincere".
Due, per l'accademico calabrese che opera a Messina, le cause che hanno avuto un peso particolare: la capacità di condizionare la politica sia a livello regionale sia a livello nazionale, creando una corruzione pervasiva in quasi tutte le Istituzioni e la naturale vocazione alla violenza omicida". E quando gli si chiede se non c'è nulla da fare e se siamo al capolinea, precisa che"siamo piuttosto ad un bivio, in un momento in cui bisogna capire, agire e colpire. Più si conosce, infatti, il fenomeno e meglio si potrà combatterlo. Ed è proprio in questa direzione che sembra si stia non solo peccando di analisi precise, ma soprattutto di quella volontà politica vera che è il problema più condizionante, il problema dei problemi di fronte a cui non seguono fatti, ma i soliti proclami. Ritengo diseducativo, ad esempio, che si parli d'invincibilità della mafia, di scontro con lo Stato. Quando mai, dico quando mai, c'è stato il benchè minimo scontro tra lo Stato e la Mafia? Sarebbe ora di squarciare gli arcani. Passare alla lotta autentica. Non giova dire e non dire, opinare e non opinare: le mezze verità, le mezze verifiche, non danno mai buoni, completi frutti. Il dopo-Fortugno, nella Locride, insegni.
DAL QUOTIDIANO ON-LINE DEL 5 AGOSTO 2006