Rosa, il cortometraggio di Caricari in concorso su RAI Cinema

“Rosa”, il cortometraggio di Vincenzo Caricari, con Manuela Cricelli e Filippo Racco, prodotto da Asimmetrici Film, è in concorso alla X edizione del festival internazionale “Tulipani di seta nera”.

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Trentaquattro le opere selezionate che saranno trasmesse sul canale RAI Cinema; una giuria di qualità selezionerà i 14 per la finale, mentre tramite il portale RAI sarà assegnato il premio al corto con il maggior numero di visualizzazioni.

“Rosa” racconta di una giovane donna di un paesino del sud Italia, pressata da problemi economici. Lavora, sfruttata, come segretaria di un dottore. Il suo unico punto di riferimento è la fede. Un giorno, al termine della messa, nota un borsellino dimenticato su una panca… (qui le foto di backstage di Giovanna Catalano). Premiato al Pentedattilo Film festival, “Rosa” ha partecipato allo Short Film Corner di Cannes 2016, all’Encounters Short Film Festival di Bristol (Londra), qualificante per la corsa al premio Oscar, e al Festival CinemaZero di Trento. Di recente è stato inoltre selezionato per la XVIII edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce. Vincenzo Caricari ha realizzato i docu-film “La guerra di Mario” e “Il paese dei Bronzi” e i cortometraggi “Il ladro”, “La carezza della sera” e “Pietre”.
Qui il link per visionare il film

http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9d943fcf-435a-4e54-a122-ec2d2bc5dc7d.html

Notizia tratta da: https://ciavula.it/2017/04/rosa-cortometraggio-caricari-concorso-rai-cinema/

Gli ultimi “carvunàri” nella Calabria che resiste

Le immagini di Fabrizio Villa ritraggono il lavoro dei carbonai di Serra San Bruno, un paese di settemila abitanti in provincia di Vibo Valentia, in Calabria. Qui il carbone si produce con la stessa, antichissima tecnica che risale ai fenici. Fabrizio Villa è tornato di recente a Serra San Bruno dopo esserci stato dieci anni fa e ha ritrovato impegnati in un lavoro usurante i figli e i nipoti degli stessi carbonai che aveva fotografato allora.
di CARMINE ABATE  foto FABRIZIO VILLA*

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Una volta ho sentito dire a uno dei pochi carbonai che ancora lavorano a Serra San Bruno: «Siamo come i panda, in via d’estinzione». Lo diceva con amarezza e un pizzico di orgoglio, consapevole di essere tra gli ultimi eredi di un mestiere millenario, svolto allo stesso modo dei fenici, che probabilmente lui non sapeva chi fossero. Questo mestiere, che consiste nel trasformare la legna in carbone e che richiede una maestria e una fatica fuori dal comune, i carbonai lo hanno imparato dai padri e dai nonni.
In passato Serra San Bruno era più nota per i suoi carbonai che per la splendida Certosa. Erano in tanti del paese che facevano i carbonai, e i boschi delle Serre non potevano bastare per tutti. E così si spostavano nei territori collinari o montani ricchi di lecci e di faggi, dove vivevano finché c’era la materia prima, la legna, e poi si stabilivano altrove.
Anche il mio paese, che è circondato da un superbo bosco di lecci, è stato meta dei cosiddetti carvunàri di Serra San Bruno. Ricordo che una famiglia di carvunàri si era stabilita in una casa della Cona, gli adulti stavano notte e giorno nel bosco, e i bambini frequentavano la mia scuola. Una domenica uno di loro mi chiese di accompagnarlo dal padre e io, che conoscevo la strada, accettai volentieri. Impiegammo più di due ore di cammino e quando arrivammo in un grande spiazzo senza alberi vidi una montagnola fatta di pezzi di legna della stessa lunghezza, più grossi alla base e più fini verso l’alto. Era la carbonaia, perfettamente circolare ed enorme, almeno tre o quattro volte l’altezza del padre del mio amico, un uomo magro e slanciato, che continuava a salire e scendere lungo una scala di legno appoggiata alla montagnola, infilando paglia e frasche nella buca in cima e infine appiccandovi il fuoco. A quel punto due o tre carbonai coprirono la montagnola con terriccio, frasche e ancora terriccio, per poi compattare il tutto con violenti colpi di pala e infine bucarla qua e là con un bastone appuntito come una spada.
La carbonaia aveva ora le sembianze di un piccolo vulcano che eruttava scintille e fumo azzurro dal cratere e dai fori delle pareti, anzi quello era vapore, che se lo respiri non ti fa male, come mi spiegò il padre del mio amico, e quando fra una ventina di giorni diventa bianco vuol dire che il carbone è cotto al punto giusto e si può vendere. Nel frattempo bisognerà civarla meglio di un figlio, la carbonaia, con altra legna e paglia e, se a causa del vento c’è un principio d’incendio, con l’acqua del ruscello. Altrimenti, se la legna s’infiamma, va in fumo il lavoro di mesi e noi carvunàri mangiamo capocchie.
Il padre del mio amico e numerosi carvunàri di Serra San Bruno hanno resistito fino a quando il gas e il carbone dell’Est hanno invaso il mercato. Poi sono emigrati anche loro all’estero o al Nord Italia. Quei pochi che resistono continuano a lavorare dalle cinque del mattino alle otto di sera; spesso si alzano la notte per andare a controllare se la loro creatura sta maturando bene, non importa se è domenica o Pasqua o Ferragosto; sanno che il loro carbone è di qualità superiore, prodotto da alberi sani e profumati, mai bagnati da piogge acide, tant’è che viene richiesto non solo nei migliori ristoranti italiani ma pure in quelli russi per la carne alla brace.
Prima che scompaiano del tutto, gli ultimi “panda carbonai” di Serra San Bruno meriterebbero di essere protetti, aiutati e valorizzati per quello che fanno e che sono: il simbolo della Calabria che lavora con passione e che resiste.

*L’AUTORE
Fabrizio Villa è nato nel 1964, è fotografo e giornalista Da 30 anni intreccia nel suo lavoro testimonianze legate al disagio sociale, all’immigrazione e alle guerre con storie d’attualità, fenomeni naturali, ritratti di protagonisti del nostro tempo. Le sue immagini e i suoi servizi sono pubblicati da giornali italiani e internazionali. Ha fotografato per conto di diverse agenzie internazionali. Fra queste, l’Associated Press, Agency France Presse e l’italiana Contrasto. Nel 2004 ha vinto il premio dell’Unione Stampa Cattolica Italiana per un’immagine sull’immigrazione clandestina in Sicilia. Nel 2011 ha ricevuto il premio internazionale di giornalismo intitolato a Maria Grazia Cutuli. Molti dei suoi reportage fotografici sono stati esposti in diverse mostre.

Carmine Abate ha vinto il premio Campiello con La collina del vento ( Mondadori, 2012). Il suo ultimo libro è Il banchetto di nozze e altri sapori ( Mondadori 2016)

fonte R.it

Con i familiari delle vittime della ‘Ndrangheta, per ricordare e amare

Reportage da Locri per la “XXII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”

di Annarita La Barbera

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Foto di Gigi Romano

25 Mar 2017
Scrivere questo articolo dopo aver marciato accanto ai familiari delle vittime delle mafie, ‘ndrangheta e anonima sequestri calabrese, può diventare molto difficile per chi è cresciuta a Bovalino. Ma in questa Via Crucis del dolore non richiesto né meritato siamo tutti chiamati a sostenere il peso della loro sofferenza e del diritto di giustizia

Un 21 marzo intenso quello vissuto a Locri per la “XXII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, organizzata dall’Associazione “Libera” di Don Luigi Ciotti.

Oltre 25 mila persone, provenienti da tutta Italia, hanno marciato per le strade locresi per dire “Basta”.

Ho camminato anch’io con i familiari delle vittime, da calabrese, prima ancora che da giornalista. Ho avuto modo di guardare molte facce quel giorno, ho incrociato sguardi e ho provato a immedesimarmi in chi era lì in ricordo di un proprio caro.

Molte sono le storie che mi sono state raccontate, i nomi pronunciati: una lista infinita. Quasi 900 vite spezzate da mani non timorose di Dio. Ho avuto modo di conoscere tanti genitori i cui figli sono stati assassinati per opera della criminalità organizzata. Ognuno di loro mostrava l’immagine del proprio parente, ammazzato senza un perché.

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Foto Gigi Romano

Ho ascoltato il racconto della madre di Celestino Fava, un ragazzo trucidato a Palizzi ( R.C.) nel 1996, a soli 22 anni, poiché testimone oculare di un altro omicidio.

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Foto di Gigi Romano

Ho parlato con Mario Congiusta, padre di Gianluca, trentenne ucciso a Siderno (R.C.) nel maggio del 2005.

Il suo sangue urla ancora giustizia: per un vuoto normativo l’assassino è rimasto impunito. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno infatti statuito l’inutilizzabilità processuale, come fonte di prova, dell’intercettazione della corrispondenza epistolare di un detenuto- che inchioderebbe l’assassino- non essendovi una disposizione di legge che lo consenta. In questo caso, a seguito di tale vuoto normativo, risulterebbe necessario l’intervento del legislatore.

Mario Congiusta, in merito alla questione, ha persino scritto una lettera aperta al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

“Non l’ho fatto per me- mi ha detto- ma per coloro che in futuro potrebbero trovarsi nella mia stessa situazione”. Ho chiesto se avesse ricevuto risposta dal Ministro, ma purtroppo la delusione dell’uomo è stata subito visibile e con un filo di voce ha dichiarato: “non mi sono arreso davanti alla ‘ndrangheta e sembra che adesso lo debba fare di fronte alla politica”.

Tra i partecipanti della giornata ho incontrato anche una donna che conoscevo sin dall’infanzia, la signora Mimma, moglie di Lollò Cartisano. Lollò era un fotografo molto stimato al mio paese, Bovalino. Il suo nome è divenuto tristemente noto perché è stato l’ultimo innocente sequestrato, nel lontano 1993, dall’Anonima aspromontana. Non ha più fatto ritorno a casa da allora.

Vedere la signora Mimma con la figlia Deborah, lì presenti, è stata un’emozione non da poco. Per un bovalinese parlare del sequestro e della fine di Lollò è come mettere il dito in una piaga ancora sanguinante, che non credo riuscirà a rimarginarsi. Ricordo ancora quando in paese circolò la notizia del suo sequestro e lo sgomento di tutti. All’epoca ero una bambina di 9 anni.

Cartisano fu sequestrato in una calda serata di luglio mentre si accingeva a ritornare con la moglie a casa. Fu aggredito e caricato assieme a quest’ultima su un’auto. La consorte fu ritrovata, diverse ore dopo, legata ad un albero lungo la strada che porta in Aspromonte, mentre di lui si persero le tracce. Il sequestro fu compiuto per punire il fotografo poiché aveva osato, negli anni ’80, sfidare la ‘ndrangheta: si era, infatti, opposto alla richiesta di pagare il pizzo e aveva fatto arrestare i suoi estorsori. Nonostante gli appelli da parte della famiglia e il pagamento di un riscatto, non fu mai liberato.

I resti mortali sono stati ritrovati soltanto nel 2003, a seguito di una lettera anonima inviata da parte di uno dei carcerieri alla famiglia. L’autore della lettera, dichiarandosi pentito e invocando il perdono, aveva indicato il posto dove era stato seppellito il cadavere.

Sono riuscita ad avvicinarmi alla signora Mimma soltanto a fine giornata. L’ho vista stanca e assorta tra i suoi pensieri. Nei suoi occhi ho letto un profondo dolore, dignitoso e composto. In silenzio,si guardava attorno. Con lei ho scambiato qualche parola.

“E’ stata una giornata bellissima, ma carica di forti emozioni”, mi ha detto. E ha aggiunto, riferendosi al rapimento del marito: “Quando ci sono eventi come quello di oggi, non sembra siano passati 23 anni e il dolore che vivi è più forte di quello che hai provato fino a ieri”.

Mi sono commossa alle sue parole, provando a non darlo a vedere.
La donna mi ha raccontato, poi, del sostegno ricevuto da parte dell’Associazione Libera e di Don Ciotti: “Libera ha fatto tanto per noi, dandoci un grande appoggio morale. Mia figlia Deborah è la referente di Libera per la Locride, ne fa parte da più di 20 anni”. Continuando: “Tutti noi familiari delle vittime, che abbiamo deciso di combattere assieme a Don Ciotti per la legalità, ci sentiamo parenti: non ci lega il sangue, ma la sofferenza che viviamo nel nostro intimo. Quando siamo insieme lo strazio si sente di meno. Siamo ormai una vera e unica famiglia”.

Nell’ascoltarla, ho pensato a quanta forza ci voglia per sostenere dispiaceri simili e andare avanti. Gliel’ho fatto anche notare.

“Sono sofferenze difficilmente comprensibili per chi non le vive, perché perdere un proprio caro in questo modo è brutale, molto di più di quando a portartelo via è una malattia: di fronte ad una malattia non puoi fare nulla, ma in casi come quello di mio marito ti chiedi semplicemente ‘perché?’ e non riesci ad accettarlo”, mi ha risposto.
“Non si riuscirà mai ad accettarlo, probabilmente”, ho aggiunto io. “Già”, ha annuito lei, alzando gli occhi al cielo.

L’ho salutata, andando via con una consapevolezza diversa. Dopo questa esperienza, ho compreso che in questa Via Crucis del dolore che avvolge i familiari delle vittime – dolore non richiesto né meritato – siamo tutti chiamati a sostenere il peso della sofferenza che ognuno di loro porta sulle spalle. Abbiamo un debito verso questi uomini e queste donne: un debito che possiamo scontare soltanto abbracciando la strada della legalità. Abbiamo il dovere morale di non lasciarli soli nella loro richiesta di giustizia. La primavera deve iniziare dalle coscienze.

Come mi è stato detto da una madre a cui è stato strappato il figlio: “Tre cose ci uniscono: il ricordo, l’amore, la preghiera”.
Fonte:

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Annarita La barbera

Annarita La Barbera
Calabrese di nascita, ma di sangue siculo. Laureata in Scienze giuridiche. Ho iniziato a scrivere a 20 anni per il giornale politico “Nuova Calabria”. Sono stata corrispondente della Locride per diverso tempo per Il Quotidiano della Calabria e per Calabriainforma. Mi sono occupata soprattutto in merito ai casi di commissioni di accesso antimafia e sugli sbarchi dei clandestini avvenuti sulle coste Joniche, oltre alla cronaca locale.

Il 21 marzo di impegno nel carcere di Opera

Manuela D’Alessandro il 25 marzo 2017. Lombardia

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C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.

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Locri. La risposta degli «sbirri»: latitanti arrestati, con dedica a don Ciotti

Antonio Maria Mira inviato a Locri mercoledì 22 marzo 2017
A poche ore dalla manifestazione antimafia che ha portato a Locri più di 25mila persone, i carabinieri hanno catturato 3 pericolosi ricercati della ‘ndrangheta
Gli sbirri rispondono coi fatti. I carabinieri hanno catturato nella notte tre pericolosi latitanti della ‘ndrangheta e dedicano l’operazione a don Luigi Ciotti.

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A poche ore dalla grande manifestazione che ha portato a Locri più di 25mila persone e a pochi chilometri dalla cittadina jonica, è finita la latitanza di Santo Vottari ricercato da dieci anni.

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